Come si potrebbe riuscire a ideare e trasmettere programmi informativi e non incentrati sulla violenza, così da formare i giovani e non imbarbarirli?
A tal proposito, ritengo interessante una proposta del grande Popper: stabilire un codice deontologico per i
professionisti della televisione allo scopo di tutelare la paidéia, l'educazione. Popper pensava alla creazione di un Istituto per la televisione (nuovo potere) che avesse come compito principale quello di preparare in modo adeguato gli operatori della TV (essa è un potere), rendendoli pienamente consapevoli dell'importanza del loro compito. Inoltre l'Istituto poi avrebbe dovuto vigilare perché ogni operatore rispettasse le regole stabilite.
C'è però un aspetto dell'idea popperiana che presenta qualche difficoltà. Infatti, la proposta di
Popper rivela i suoi limiti: essa infatti prevede che per limitare un potere (la TV) se ne introduca uno nuovo (l'Istituto per la televisione), con tutti i rischi che esso comporta. Si pone infatti il seguente problema: chi gestirà questo nuovo potere? La società o la politica? E con quali criteri? Sarebbe più opportuno tentare di limitare il potere della TV dall'interno, utilizzando i suoi stessi apparati. Bisogna cioè trovare all'interno della televisione stessa i mezzi e le strategie per limitarla.
Una proposta che sembra andare in questa direzione viene avanzata da Renato Parascandolo, il quale la argomenta con questo ragionamento: il problema che si pone: chi educa gli educatori (autori dei programmi, responsabili dei palinsesti, giornalisti)? Credo che la risposta giusta sia: la televisione stessa.
Infatti gli apparati televisivi -e in generale tutti gli apparati- in base al loro funzionamento (organizzazione del lavoro, gerarchie, procedure, etc.) e alla funzione che sono chiamati a svolgere (accumulare profitti, offrire un servizio di utilità, fare propaganda etc.) creano modelli professionali, mentalità, valori, cultura. Gli apparati cioè oltre a produrre merci o servizi
producono anche ideologia. Una ideologia che è presente non solo nei prodotti-soprattutto se immateriali, come i programmi televisivi- ma anche nei modi di lavorare, nelle forme della burocrazia, nella divisione del lavoro. La televisione come apparato dunque, educa, simultaneamente, sia i telespettatori che i suoi dirigenti e tutti coloro che vi lavorano. Questa formazione crea aspettative, pregiudizi e valori i quali ovviamente non possono che essere in sintonia con il funzionamento dell'apparato e con gli scopi che esso persegue. Questo ragionamento apre una questione molto concreta. Se vogliamo approdare a un modello di televisione più colta e intelligente, non basta aprire le porte a nuove idee e nuovi argomenti.
Prima di tutto bisogna modificare la struttura degli apparati, il loro funzionamento, il loro modello produttivo, i profili professionali, la burocrazia, perché solo questo può cambiare la mentalità di chi vi lavora e di chi li dirige.
Parafrasando Mc Luhan potremmo quindi dire non tanto che il medium è il messaggio, quanto che
l'organizzazione del medium è il messaggio. In altre parole non avremo una nuova e più coltivata classe dirigente negli apparati televisivi per opera e virtù dello Spirito Santo, oppure agendo solo sulla programmazione (dalla TV generalista a quella tematica), ma solo ridisegnando l'architettura ideativo-produttiva degli apparati della comunicazione.
Queste riflessioni ci portano molto vicino al cuore della struttura televisiva, ci conducono all'interno dell'apparato, mostrandoci il funzionamento di quella complessa macchina che è la TV. Tuttavia numerosi problemi strategici restano ancora irrisolti. Se cambiare la TV significa cambiare il suo «modello produttivo», la «struttura degli apparati», ridisegnare «l'architettura ideativo-produttiva», si pone il seguente problema: come è possibile fare tutto ciò fintantoché la televisione resta una struttura dominata dagli interessi economici? Come cambiare il suo
«modello produttivo» se l'unico criterio discriminante la qualità dei prodotti televisivi è l'Auditel?
Sono domande, queste, che attendono al più presto una risposta adeguata. Ne va della nostra civiltà.
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